Imprese femminili: il quinto rapporto nazionale di Unioncamere

donne che si stringono la mano (PressFoto per freepik.com)

[10-08-2022] Situazione in chiaroscuro per l’imprenditoria femminile in Italia: ancora poche unità rispetto al totale delle imprese (sono il 22%), più piccole nella dimensione e anche per questo più fragili, tuttavia resistite meglio alla scure della pandemia e con una buona prospettiva di crescita d'investimento in innovazione.

 

È il quadro emergente dal V Rapporto nazionale dell’imprenditoria femminile realizzato da Unioncamere, che l’ha presentato in questi giorni a Roma, corredato da una ricerca su un campione di 4mila imprese, paritariamente femminili e maschili, svolta per  sondarne le strategie verso la transizione digitale e green.  Il rapporto ha sondato inoltre la reazione della classe imprenditrice nei confronti della  certificazione di genere, misura novità inserita nel Piano nazionale di ripresa e di resilienza per favorire la parità di genere e l’occupazione femminile di qualità.

 

IL RAPPORTO. Al 2021, le imprese femminili in Italia sono 1 milione e 342 mila, poco più di un quinto del totale. Per la stragrande maggioranza, quasi il 97%, sono composte da microimprese e fra queste il 62% sono ditte individuali. Il rapporto riconosce peraltro un miglioramento nel tempo di questa strutturazione dell’imprenditoria femminile italiana, osservando nel 2021 un aumento delle società di capitali di circa il 3%. E registrando inoltre, all’uscita dall’anno  più pesante per la pandemia da Covid-19, che le imprese femminili sono aumentate di 6.476 unità (+0,5%) a fronte di una diminuzione di oltre 17mila unità (-0,4%) delle imprese non femminili.

Circa la distribuzione settoriale, le imprese femminili sono per il 73% concentrate nel settore dei servizi, assorbite in particolare dai servizi alla persona e da sanità e sociale; il 15% lavora nel settore primario (agricoltura) e solo l’11% nel settore industriale.

 

 

Nella dinamica infra-territoriale, il rapporto evidenzia una maggiore percentuale di presenza di imprese femminili nel sud e isole del Paese (23,7% contro il 22% nazionale); sono al 23,1% nel centro, per superare di poco il 20% al nord. In valori assoluti tuttavia le parti si invertono: al nord esiste il maggior numero di imprese femminili, seguito da sud e isole e dal centro Italia. Su scala regionale il Veneto risulta quinto in graduatoria per il numero d’imprese (97.293), ma quindicesimo in termini percentuali (20,3% contro il 27,4% del Molise, prima regione d’Italia per questo parametro).

 

TRANSIZIONE DIGITALE E GREEN. L’indagine ha evidenziato una debolezza di base delle imprese femminili negli investimenti aziendali in tecnologie digitali e per la sostenibilità ambientale. Ciononostante, a seguito dello shock pandemico, il 14% delle imprese femminili ha dimostrato una maggiore reattività verso la transizione digitale, iniziando ad investirvi, contro l’11% delle imprese non femminili. Così nella transizione green, nel biennio 2020/2021, il 12% delle imprese femminili ha iniziato ad investire in questo ambito, contro il 9% di quelle non femminili.  

 

CERTIFICAZIONE PER LA PARITÀ DI GENERE. Questa misura, che prevede un impegnativo percorso per le aziende, e la cui acquisizione consente di ottenere sgravi fiscali e agevolazioni nei bandi di finanziamento su risorse pubbliche e del PNRR, non risulta particolarmente all’attenzione degli imprenditori intervistati. Si tratta di un sistema di gestione per la parità di genere in azienda, che prevede un insieme di indicatori di natura quantitativa e qualitativa, rispondenti alle finalità di rimuovere i divari di genere (retributivi, di accesso e trattamento sul lavoro, di strumenti conciliativi ecc.) e favorire un’occupazione femminile di qualità, nonché il riequilibrio dei carichi di cura. Il 23% degli intervistati, sia delle imprese femminili che non femminili, ha dichiarato la propria volontà  di conseguirla. L’indagine rileva che sono maggiormente propensi a farlo gli imprenditori in possesso di una laurea (31%), rispetto a quelli in possesso di un diploma (22%) e soprattutto rispetto a quelli in possesso di licenza elementare/media (14%). Ciò porta all’attenzione l’importanza di aumentare la conoscenza e consapevolezza di questo importante tema lungo tutto il sistema imprenditoriale, a partire dagli imprenditori con i più bassi livelli di istruzione.

 

In chiusura d'indagine uno sguardo sugli investimenti nei cosiddetti asset intangibili: ricerca e sviluppo e proprietà industriale; capitale organizzativo (riorganizzazione e certificazioni di qualità); open innovation (attraverso collaborazioni con altri soggetti territoriali pubblici e privati); capitale umano (formazione e competenze). Si tratta di strumenti considerati in ambito economico come fattori certi di competitività e di crescita aziendale e la stessa indagine rileva l'effetto positivo nel fatturato tra imprese che non investono rispetto a quelle che lo fanno. I dati confermano inoltre la minor propensione delle imprese femminili, rispetto a quelle non femminili, ad investimenti di questo tipo, ma anche che questo divario viene sostanzialmente riequilibrato in presenza di una direzione aziendale mista tra manager uomini e donne. 

 

 

foto: PressFoto / freepik.com

 

 

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