[24-09-2020] Come cambia il rapporto di lavoro con lo smart working? Quanto contribuisce a condividere i carichi di cura in famiglia o quanto invece aggrava il già pesante fardello sulle lavoratrici? E come cambia il rapporto con l'organizzazione datoriale e nelle dinamiche di gruppo?
Sono alcune delle molte domande emerse dalla pratica massiccia di lavoro agile in tempi di emergenza da Covid-19, quando, da poche decine di migliaia, furono quasi 8 milioni le persone portate al lavoro in casa, da remoto, con uno sforzo tecnologico che il Paese ha senz'altro dimostrato di poter affrontare, seppure con diverse capacità di risposta. Ma anche un'esperienza collettiva che, di pari passo con l'eccezionalità del confinamento sanitario, ha indotto molte organizzazioni ad approfondirne gli aspetti e a rilevarne vantaggi e rischi.
Fra le molte relazioni diffuse all'indomani dell'avvio delle fasi 2 e 3 dell'emergenza, ne abbiamo lette alcune tese ad evidenziare l'impatto sociale e quello familiare, tenendo in secondo piano per ora l'aspetto economico e produttivo, pur se così importante.
Partiamo allora dall'indagine svolta dalla Regione Veneto su una quota significativa del personale interno, condotta tra maggio e giugno, per verificare l'impatto della massiccia adozione del lavoro a distanza nella primavera 2020.
Va detto che, come per buona parte degli enti della pubblica amministrazione, anche in Regione Veneto, in pochi giorni, circa l'88% del personale in servizio (da poche decine a oltre 2.200) si trovò nelle condizioni di lavorare da casa. Di questi il 62% donne e anticipiamo che le donne sono la maggioranza dei campioni esaminati.
L'indagine regionale intendeva rispondere a vari scenari: l'efficacia delle infrastrutture che consentono il lavoro da remoto, la cultura digitale necessaria ad affrontare il momento, le ricadute in famiglia anche in termini di conciliazione vita e lavoro: aspetti diversi che il gruppo di lavoro impegnato nella ricerca ha inteso affrontare con un approccio multidisciplinare, maturato nell'ambito della sperimentazione del lavoro agile avviata nel 2018 all'interno del progetto europeo Ve.LA.
Da qui il coinvolgimento - per gli aspetti relativi al benessere organizzativo e all'impatto di genere - del Comitato unico di garanzia o Cug (organismo interno destinato a valorizzare il benessere organizzativo) e della consigliera di parità regionale, Sandra Miotto, che si sono espressi, ciascuno per la propria sfera di competenza, su una parte del questionario somministrato al campione di 779 dipendenti regionali, corrispondente al 31% di coloro che praticavano lo smart working.
Ciò che emerge in prima battuta dalle risposte, secondo la consigliera, è "la sensazione di isolamento" e quella di "essere considerati dipendenti di serie B, quasi dei lavoratori in vacanza". Miotto sottolinea come dal punto di vista relazionale, chi lavora da remoto vive una maggiore diffidenza nei rapporti con il gruppo di lavoro e una minor adesione all'organizzazione e al ruolo, con il rischio di pesanti ricadute sulla produttività.
Certo nel lavoro da remoto si sente la mancanza delle dotazioni d'ufficio (carta e altri strumenti quotidiani), ma si soffre soprattutto per la perdita del contatto umano, che tuttavia è vissuto dalla maggioranza, realisticamente, come conseguenza del "confinamento sanitario" che grava sul singolo. Seguono, a distanza, i rapporti con il gruppo di lavoro e, solo per il 16% delle segnalazioni, la gestione amministrativa, evidentemente sopperita dall'efficienza della rete internet e intranet che mette a disposizione tra il 75% e il 100% delle risorse software alla maggior parte del personale in remoto.
Sui carichi di cura familiare (prole anche in età scolare o persone anziane), secondo la consigliera di parità regionale "lo smart working concesso anche agli uomini contribuisce al raggiungimento del family balance". Così infatti la pensa il 95% degli intervistati contro l'82,2% delle intervistate. Resiste tra le dipendenti un 18% equamente diviso tra chi ritiene lo smart working una prerogativa femminile per conciliare lavoro e famiglia, e chi come uno strumento di rinforzo dello stereotipo di genere. Sul fronte dell'assistenza alla prole impegnata nella didattica a distanza (Dad), la consigliera rileva l'emersione del divario digitale di genere, con le donne maggiormente in difficoltà rispetto ai partner. Incide comunque anche il ruolo professionale: la Dad diventa un carico più "pesante" in chi ha un inquadramento più elevato, di maggiore responsabilità.
Altro aspetto affrontato dal questionario è il diritto alla disconnessione e il tempo dedicato al lavoro. Quasi il 64% dei rispondenti ha la percezione di lavorare di più da remoto (66% donne, 59% uomini) e che pause e orari di lavoro sono più difficili da rispettare.
"La mancanza di un confine netto tra lavoro e casa - scrive Miotto - porta le persone a sovra-lavorare, di fatto sottraendo tempo alle attività extraprofessionali".
Emerge però la consapevolezza che tutto ciò sia dovuto alla tipologia di lavoro. Rileva il Cug che queste difficoltà "sono state percepite di più dai funzionari, da coloro che rivestono una posizione organizzativa e dai dirigenti". E sul punto l'organismo di garanzia ritiene di registrare dal personale la domanda di "un cambio di mentalità da parte della dirigenza e una maggiore resilienza ai cambiamenti portati dal lavoro agile".
Sembra rafforzare questa valutazione la domanda sulla percezione della modalità di gestire il proprio tempo lavoro, che vede il 55% dichiarare di usare la classica modalità "per ore di lavoro", rispetto a chi lavora "per obiettivi", con la conseguente variabilità del tempo dedicato alle mansioni. Il Cug rileva infatti una divisione anche tra chi ha svolto un orario di lavoro fisso e determinato rispetto ad uno più vario e flessibile.
Ecco alcune raccomandazioni o suggerimenti tratti dalla relazione sull'esito dell'indagine:
Tra le altre indagini circolanti in rete e nate sull'onda della massiccia adesione allo smart working in emergenza sanitaria, c'è quella della Cgil-Fondazione Di Vittorio, cui hanno risposto 6.170 persone, "un universo davvero robusto che dimostra l'elevato interesse di lavoratrici e lavoratori ad esprimersi su questo tema". Delle risposte il 34% è pervenuto dal settore pubblico.
Sulla base della rilevazione, l'analisi profila 4 atteggiamenti:
Segnaliamo poi l'indagine Cifa, la confederazione che rappresenta diverse associazioni di categoria del mondo imprenditoriale che ha interpellato un campione di circa 1.900 dipendenti, di cui il 59% donne. Tra le positività del lavoro agile, l'indagine rileva: il risparmio dei costi di trasporto e pranzo; un incremento nella produttività, nell'autonomia e nella responsabilità sul raggiungimento degli obiettivi.
Negativi invece gli aspetti sociali e relazionali, legati al coordinamento con il capo e il gruppo di lavoro, alla condivisione delle informazioni e alla gestione delle relazioni da remoto; l'aumento del tempo dedicato al lavoro, compreso il mancato riconoscimento dello straordinario; la condizione di costante reperibilità, che evidenzia la percezione del diritto di disconnessione.
Anche l'Inapp, ente pubblico di ricerca (ex Isfol), diffonde gli esiti di una sua peculiare indagine, volta a commisurare l'attitudine allo smart working (Asw) rispetto alla distribuzione del reddito, rilevando che "i lavoratori con un'alta attitudine al lavoro agile hanno in media un vantaggio salariale del 10% rispetto ai lavoratori con una bassa attitudine, che raggiunge il 17% tra i lavoratori con i redditi più alti". Considerato quindi che la maggior attitudine riguarda soprattutto uomini e con redditi più elevati, l'indagine rileva il rischio di una maggiore disuguaglianza di reddito (e di genere) nell'applicazione dello smart working in Italia.
Sempre l'Inapp, ha lanciato, agli inizi di giugno, un'altra ampia indagine, suddivisa in diversi filoni, finalizzata ad esaminare la prospettiva di genere nel lavoro in tempo di Covid-19, di cui però non sono ancora disponibili i risultati.
Infine ForumPA, società di servizi per l'innovazione nella pubblica amministrazione, ha pubblicato gli esiti di una ricerca che ha coinvolto 5.225 persone di cui 4.200 dipendenti pubblici. Di questi l'88% ha giudicato positiva l'esperienza di SW e già il 61% ritiene che questa modalità prevarrà anche una volta finita la fase di emergenza. Numeri da primato: solo il 5% del personale del pubblico impiego si dichiara escluso dal lavoro agile, evidenziando una vera e propria rivoluzione nel rapporto di lavoro tenutasi nel periodo di emergenza sanitaria.
Gli aspetti problematici anche qui hanno riguardato le relazioni sociali con colleghi, l'isolamento lavorativo, la difficoltà di conciliazione famiglia e lavoro. Critici gli spazi in casa, visto che 3 dipendenti su 10 hanno dovuto condividere il proprio spazio lavoro con altri familiari. L'esperienza è stata giudicata in ogni caso prevalentemente positiva, tanto da ritenere di dover essere mantenuta, ma certo intervallata da rientri nell'ente di appartenenza.
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